
Ma Dang le Kandro.
Questa sorta di proverbio, che mi arrivò da bocca a orecchio per imparare, dalla cadenza delle sillabe, il ritmo di un Damaru, significa qualcosa del tipo “ Tutte le Donne sono Madri”.
Lo dice usando termini che si definiscono onorifici, ovvero che esprimono un particolare rispetto, una forma di devozione. Il senso non è , come si potrebbe pensare, che una donna raggiunga la sua piena vocazione nella maternità, ma, in qualche modo, esattamente il contrario: che ad ogni donna, che abbia o meno partorito, dovremmo il medesimo amorevole rispetto che per chi ci ha dato la vita e nutriti.
Del resto, nella visione del Dharma, Tutti gli Esseri Senzienti sono stati le nostre Madri - e c’è, in qualche modo, in questo, una sottile verità di interconnessione biologica, oltre che spirituale.
Il quattordicesimo dei Voti Tantrici diffida esplicitamente dal “disprezzare le donne, che sono le sorgenti della saggezza e fonte d’ispirazione “.
È rivolto a tutti, ma a maggior ragione ai Praticanti di sesso maschile, che si astengano dal criticare le donne in quanto tali, come maligne o inferiori agli uomini.
Grandi Meditateci e Illuminate fanno la storia stessa del Tibet, a partire da Yeshe Tsogyal, che, secondo la Tradizione, è la prima ad aver ottenuto la competa Liberazione Spirituale, o Machik Labdrön, indiscussa Guru e madre di tre figli, o Dakini Mingyur Paldrön, altra grande Maestra, meno nota, ma con una tale padronanza di sé e libertà da seguire autonomamente il proprio cammino indipendentemente non solo dal desiderio paterno, ma anche dalle offerte di un elevatissimo Maestro.
(*Si consiglia, a tal proposito, la lettura di Karmamudra, lo Yoga della Beatitudine, Dr. Nida Chenagtsang).
Possiamo esser sicuri che più della metà delle preghiere, in Tibet e nella sua tradizione nel mondo, sono rivolte a Tara Dolma (Tib. སྒྲོལ་མ), Buddha femminile, Grande Madre della Liberazione, essenza stessa della Compassione in azione.
Il Tibet stesso, del resto, era considerato una donna, una gigantessa potente ed irata, la cui forza era tanta che si è dovuto placarla trapuntandola di Templi e luoghi sacri.
Com’è allora, che a Tara stessa, si racconta, fu detto che, a completamento della sua Liberazione, non mancava che rinascere uomo?
Com’è che alcuni aspetti dell’Astrologia suggeriscono Pratiche per assicurarsi una Rinascita umana sì, ma meglio se maschile?
Com’è che scopriamo che སྐྱེ་དམན་ (skye dman, pronuncia kyemen), che è uno dei modi per dire donna, o moglie, nel Tibetano antico, significa letteralmente “nascita minore”?
Nel già citato “Karmamudra”, si spiega, in modo semplice e accurato, cosa crei nella cultura Buddhista in generale, e Tibetana in particolare, questa cocente opposizione. Benché, come si dice, tutte le strade portino a Roma, sono a volte diversamente asfaltate, e, benché con simili obiettivi, il percorso del Sutra e del Tantra mostrano di frequente approcci assai diversi alla Vita e alla Rinuncia, sia - parlandone come una medicina - perché lo stesso male può mostrarsi diversamente in menti diverse, o in tempi diversi, e necessitare quindi diversi tipi di cura, sia perché più spesso legati ad uno stile monastico il primo, e laico il secondo.
Una certa demonizzazione della figura femminile, destinata soprattutto a placare le fantasie dei giovani praticanti monaci, fino a suggerire, con racconti ed immagini, di spogliare completamente l’oggetto del desiderio di ogni appetibile virtù, perché non fosse d’ostacolo alla meditazione e al mantenimento dei Voti in coloro che - come si direbbe nella tradizione cristiana, volevano “farsi eunuchi per il Regno dei Cieli” (*Matteo, 19, 12), dovrebbe suonarci piuttosto familiare.

E benché perfettamente comprensibile nell’intento e nel metodo, ci è purtroppo familiare anche il fraintendimento e le ripercussioni sociali che questo può comportare, quando ad un puro intento si sostituiscono ignoranza o manipolazione delle informazioni.
Come accade spesso, quando alle tradizioni si sovrappongono questioni di potere, l’immaginario sul femminile si racchiude in pochi estremi contrapposti. L’immaginario del femminile, invece, continua ad aprirsi in ogni direzione, rivendicando pienamente i suoi spazi, a volte tramandando il proprio patrimonio da bocca a orecchio, a volte mostrandosi fieramente alla luce del Sole, che, nella cultura Tibetana, è femminile.
Paradossalmente, nonostante le dovute differenze, non è lontano quanto vorremmo far credere il nostro Occidente, in cui ancora molti spazi devono essere guadagnati ad una maggiore consapevolezza che restituisca a ciascuno la preziosità del suo essere al di là di condizione sociale e genere.
Uno degli aspetti più interessanti a riguardo è proprio il ruolo delle donne nella Medicina e negli aspetti della Salute in generale.
In primo luogo nel ruolo attivo di protagoniste della professione: malgrado la storia ricordi come la figura femminile non sia mai mancata nell’aspetto medico - e non solo in quello immediatamente intuibile di caregiver, cui spesso si è voluta relegare - ma come esperta protagonista e detentrice di Lignaggi, ufficiali e non.
Al fianco di figure mitologiche, in cui il confine fra Medicina e Magia si assottiglia con una voluta accentuazione della seconda come a costituire un elemento di discredito, non mancano fin dall’antichità nomi illustri che affiancano i colleghi senza cedere il passo in perizia ed esperienza.
Facilmente si menzionano nell’antichità occidentale Artemisia, Agnodice, Sorano, Metrodora, così come, nel Medio Evo, Trotula de Ruggiero della Scuola Salernitana, o l’ancora più universale Ildegarda von Bingen.
Non ci vuole molto a notare che, anche nelle ricerche più accurate, le menzioni più storicamente ricche e documentate sono poche, irragionevolmente poche, non dissimili da quelle sole 12 colleghe che compaiono accanto ai 207 maschi nel conseguimento del Premio Nobel per la Medicina.
Malgrado le statistiche mostrino una nutrita presenza di eccellenti studiose, l’Ars Medica sembra, tutt’oggi, perdersi per strada nomi illustri al femminile, in una realtà che ancora getta ombre sulla possibilità di seguire pienamente inclinazioni e talenti, o paventa dicotomie irrisolvibili fra scelte professionali e familiari.
La stessa fortuna incerta e scarsità di riflettori ha colpito a lungo anche le “malattie femminili”, sia nell’approccio generale alla paziente, che nella specifica medicina di genere, fino alla disparità nel riconoscimento di infortuni e malattie professionali.
Se negli ultimi trent’anni si sono susseguite specifiche ricerche sulla disparità del trattamento di genere (*famosi apripista furono “The Yentl Syndrome”, di Bernadine Healy, New England Jourlan of Medicine, 1991“The Girl Who Cried Pain: A Bias Against Women in the Treatment of Pain” di Diane E. Hoffmann e Anita J. Tarzian, University of Meriland, 2001), è nell’esperienza diretta di moltissime donne lo scontro con quell’intricata trama di pregiudizi, luoghi comuni e stigmi che accompagnano spesso la paziente nel confronto con l’impatto sanitario, esattamente come in ambito lavorativo e giuridico.
La percezione del ruolo sociale della donna e della sua natura ha avuto, nel tempo, e a volte mantiene, effetti per niente secondari nella ricerca e nella diagnosi. Nell’ambito Medico questa disparità ha comportato, ad esempio, scarsità di interesse, sottovalutazione o ritardo nella ricerca in generale, nell’identificazione di alcune patologie ginecologiche, o nell’estremizzazione di sintomatologie psichiatriche, con un ritorno di impatto sociale e credenze talmente salde, nel pensiero comune, da divenire proverbiali, ma anche riverberandosi rovinosamente nell’aspetto diagnostico, in termini di tempi, precisione ed efficacia.
Una delle conseguenze più sottili è che quel divario nelle ipotesi sulle donne è divenuto anche un divario nella percezione del corpo delle donne stesse, soprattutto nel frenetico stile di vita contemporaneo, fino ad una possibile sottovalutazione del dolore e della sintomatologia, una resistenza a sottoporsi a screening e campagne di prevenzione, perché “ora non ho tempo”, “non posso assentarmi da lavoro, famiglia, etc.”, “è normale che faccia male”, “tanto poi passa”.
Ecco che, come in tutti gli ambiti del nostro ben-essere, è l’ascolto del corpo che dobbiamo tornare ad imparare, che si tratti di distinguere i normali crampi del ciclo da dolori complessi e invalidanti, o di riconoscere in anticipo il nostro punto limite prima di lasciar arrivare lo stress al punto di rottura.
La Sowa Rigpa, la Medicina Tradizionale Tibetana, può davvero diventare un preziosissimo strumento per la salute delle donne. E non solo perché, unica fra le medicine antiche, ha una branca della Ginecologia talmente accurata da dividere la gravidanza in settimane e non in Lune, con una precisa descrizione e consapevolezza della vita del feto nel grembo e della madre, o perché sembri riconoscere ed offrire una visione accurata e sistematica di un numero strabiliante di specifiche patologie e relativi rimedi (compresi aspetti che sono di recente scoperta e ancora in corso di studio persino per la medicina moderna). Innanzitutto, il differente approccio diagnostico e terapeutico, non limitandosi ad uno spettro sintomatico, aggirano proprio quei rischi di minimizzazione, fraintendimento e sottovalutazione.
Ma, soprattutto, si riporta l’attenzione sull’unicità della persona, sull’integrazione di tutti i suoi aspetti, della sua natura, della sua storia, del suo ambiente, di tutte le caratteristiche che la contraddistinguono, in una visione olistica e d’insieme, che affronta problema, cura, e soprattutto prevenzione in maniera completa, e non solo attraverso un approccio terapeutico o farmacologico in senso stretto. È una Medicina per tutti i giorni, non solo per liberarsi di un problema, ma per migliorare la qualità della vita - è un modo per ascoltarsi, per riguadagnarsi a se stessi ed esprimere pienamente le proprie qualità uniche, è un prendersi cura di sé, prima ancora che una cura.
Questi aspetti, che ne fanno anche una perfetta Medicina complementare, favoriscono una presa di consapevolezza dei propri specifici bisogni, rimodulando completamente il nostro concetto di corpo, di stile di vita, di alimentazione, e forse persino di spazio sociale e felicità.
“Com’è essere sposati con un genio? Chiedetelo a mio marito.”
(Marie Curie, prima donna a vincere il Nobel nella scienza, la prima dei soli quattro ad averlo vinto due volte).
Marie Corrao
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